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21 febbraio 2012 2 21 /02 /febbraio /2012 09:13

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Nuovi poveri tra le nuove povertà

di Leo Maggio

 

Anche a Palo è in forte crescita il numero dei detenuti agli arresti domiciliari che, per sopravvivere, bussano alle porte della Caritas. Ne parliamo con Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, una associazione impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale.

 

Palo del Colle, oltre ventimila abitanti e un dato su tutti: cresce in paese il numero di detenuti agli arresti domiciliari. La notizia è fornita direttamente dagli osservatori delle Caritas parrocchiali, che aggiungono ancora “nuovi poveri” alla lista del disagio e dell’emarginazione cittadina. Per capire meglio il fenomeno, ne abbiamo parlato con Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone, un’associazione politico-culturale di magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che, a diverso titolo, si interessano di giustizia penale e il cui scopo è quello di promuovere e garantire i diritti nel sistema penale italiano. Barese di nascita e romano di adozione, Gonnella è presidente di Antigone dal 2005.  La sua prima riflessione è dedicata proprio a Bari, città che soffre i tipici problemi di una grande area metropolitana. “Anche qui il sovraffollamento carcerario è forte - dice Gonnella – con conseguenze che incidono molto sulle condizioni sociali di una comunità.”

 

D. A Palo come nel resto d’Italia, è in aumento il numero dei detenuti che scontano la loro pena agli arresti domiciliari. Perché?

 

R. Dal dicembre 2010 una legge dell’allora ministro della giustizia Alfano, prevede una maggiore possibilità di allargare la detenzione domiciliare per pene inferiori ai 12 mesi. In giro per l’Italia ne hanno usufruito circa 4000 persone. Ma il dato potrebbe essere in aumento, perchè è in discussione una legge che nelle prossime settimane potrebbe estendere questo beneficio anche a detenuti che devono scontare pene inferiori ai 18 mesi. E’ l’intero sistema penale che è cambiato: agli arresti domiciliari ora si arriva non solo in alternativa al carcere, ma anche per decisione del giudice. Questo accade perché negli ultimi anni l’asse della politica repressiva si è spostato verso il contrasto delle marginalità sociali. Colpisce particolarmente le fasce deboli, già fortemente penalizzate dalla crisi economica e dalla sempre più progressiva riduzione del welfare.

 

D. I detenuti agli arresti domiciliari non hanno la possibilità (salvo rari casi concordati) di poter mettere “il naso fuori casa”.  Il problema si amplifica nei casi in cui il soggetto, essendo solo e senza alcun parente autorizzato ad entrare in casa, non sa realmente come poter vivere. 

 

R. Le condizioni economiche di un detenuto ai domiciliari dipendono sicuramente dalle disponibilità finanziare della famiglia. Se si tratta di persone con scarsi mezzi, questo “abbandono pubblico “ tende ad aumentare anche il rischio di recidiva. Ed è proprio la mancanza di integrazione con il territorio ad aumentarne le percentuali di rischio. Non esiste una rete di assistenza sociale e i Comuni intervengono solo in casi particolari.

 

D. Il problema è ulteriormente amplificato dal fatto che nessun altro, neppure un sacerdote, può recarsi all’interno della casa di un detenuto (salvo autorizzazione del giudice) per potervi portare anche un piatto caldo o una parola di conforto. Come agire?

 

R. Tutti gli attori tradizionali dovrebbero essere meno ipocriti. Soprattutto nel sistema giustizia, la persona agli arresti domiciliari è solo un numero, tutto è burocratizzato e nessuno comprende più bisogni, sofferenze e volontà di riscatto. E questi numeri, ultimamente, sono troppo alti e non si riesce più a distinguere il volontario che tende una mano, dal complice che è sempre pronto ad indurre alla recidiva.

 

D. Decine e decine di detenuti ai domiciliari si rivolgono alle Caritas cittadine. Il dato ufficiale si confonde con quello ufficioso che è molto più alto, proprio perché non possono incontrare nessuno. Qualcuno li aiuta anche di nascosto. Chiedono soprattutto viveri, ma anche di tornare a “vivere” con qualche ora di libertà concessa loro dal giudice per svolgere attività di volontariato nelle parrocchie.

 

R. Il lavoro della solidarietà cristiana parte da un sentimento profondo, ma dovrebbe essere un’intera comunità istituzionale e sociale a farsene carico. Questa situazione indica il fallimento totale del nostro sistema sociale che produce questa realtà e fa in modo che ci si affidi solo al buon cuore dei singoli.

 

 

Poveri più poveri?

di don Antonio Ruccia, direttore Caritas diocesana Bari-Bitonto

 

Si sente spesso parlare di nuove povertà della società del terzo millennio e si finisce per elencarne alcune come l’alcolismo o le tossicodipendenze, come emblema di questa nostra società, spersonalizzata e globalizzata, che stritola la personalità dei singoli, finendo per massacrare le potenzialità personali esistenti.

Senza nulla togliere a problemi come l’alcool o le droghe, leggere o pesanti che siano, e senza dimenticare i fenomeni delle malattie compulsive come lo shopping o la mania del gioco, anche legalizzata dallo Stato con l’espediente di poter attingere denaro, forse non è il caso di dimenticare le povertà dei carcerati, che sono una delle situazioni su cui non è possibile nicchiare.

Il recente intervento del Papa nella sua visita al carcere romano di Rebibbia e le pessime condizioni in cui versano le nostre “patrie galere”, devono portarci a riflettere, attentamente, su questa realtà. Nessuno di noi deve ergersi a paladino dei detenuti, che giustamente devono scontare la pena, ma è necessario annoverare  tra le nuove povertà proprio la condizione di quanti si trovano in questi luoghi.

Dalle testimonianze dirette che ho raccolto nelle visite alla Casa Circondariale di Bari e da quelle dei volontari della Caritas Diocesana che vi si recano settimanalmente per i colloqui, tutto ciò appare evidente e richiede un ulteriore dibattito.

Accanto a questa povertà è possibile individuarne un’altra, che apparentemente sembra essere meno onerosa, ma in realtà diventa in molti casi traumatica. Mi riferisco a coloro che, per disposizione del giudice, espletano la loro pena agli arresti domiciliari. Questi non hanno la possibilità (salvo rari casi concordati) di poter mettere “il naso fuori di casa”.

 Fin qui “nulla quaestio”, ma il problema si amplifica nei casi in cui il soggetto, essendo solo e senza alcun parente autorizzato ad entrare in casa, non sa realmente come poter vivere.  Si possono considerare poveri anche loro?

Il problema è ulteriormente ingigantito dal fatto che nessun altro, neppure un sacerdote, possa recarsi all’interno della sua casa (salvo autorizzazione del giudice), per potervi portare anche un piatto caldo quotidianamente o una parola di conforto. Che fare? Diventare fuorilegge?

Il ruolo della comunità parrocchiale, in questo caso, diventa fondamentale nel lavoro sinergico tra servizi sociali comunali e autorità preposte a riguardo. Sarebbe il caso, senza mettere nessuno alla gogna, che si cercassero soluzioni di solidarietà, per non far ricadere nella logica del delinquere chi, appena terminato il periodo dei domiciliari, si ritrova solo e senza nessuno. La comunità parrocchiale deve farsi carico di motivare chi vive questo problema, cercando di rinsaldare i vincoli, soprattutto con i parenti più prossimi, nella consapevolezza che anche il buon ladrone non chiese di scendere dalla croce, ma solamente di poter essere condotto in paradiso. Non è forse questa una delle sette opere di misericordia corporale che siamo chiamati a mettere in pratica? Non ritenete che essi possono essere annoverati tra quei poveri (e forse più poveri) cui nessuno presta uno sguardo di attenzione?

 

FOCALIZZIAMO a cura di Mariateresa Capozza

 

Parlare di carcere è difficile sia perché sulla detenzione in sé si moltiplicano i punti di vista, sia perché alcune testimonianze sul clima tra quelle mura sono tragicamente inquietanti, sia perché fa comodo credere che non sia una faccenda che riguardi noi che stiamo “fuori”. Per avvicinarci al tema, due libri diversi, ma complementari: LUCIA CASTELLANO, DONATELLA STASIO, Diritti e castighi. Storie di una umanità cancellata, 2009, Il Saggiatore, e  GHERARDO COLOMBO, Il perdono responsabile. Si può educare al bene attraverso il male? Le alternative alle punizioni e alle pene tradizionali, 2011, Ponte alle Grazie.

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L'associazione pone al centro della propria vita associativa la formazione e l’animazione allo spirito cristiano delle realtà familiari, ecclesiali e sociali in cui si è inseriti e lo scopo per cui si costituisce è l'evangelizzazione, attraverso la testimonianza di ciascuno negli ambiti dell'impegno sociale, in particolare si propone di dar vita a momenti di formazione e di osservazione dei fenomeni, sia con l’organizzazione di incontri, l’istituzione di un osservatorio della legalità, la redazione di notiziari utili a promuovere le attività della comunità, sia la  realizzazione di un luogo di scambio per le opinioni sulle problematiche sociali, maggiormente avvertite dalla collettività cittadina. Il nostro luogo di osservazione è il territorio in cui prevalentemente operiamo, teniamo a cuore la nostra cittadina ed è per la nostra Palo che intendiamo spendere le nostre energie, utilizzando la significativa voce del notiziario per  analizzare e proporre alternative  alle problematiche che lo affliggono attraverso quella visione di carità cristiana che è fondamento  del nostro operare.

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